Il mestiere delle armi. In morte dei guerrieri (pezzo del 2015)
Il mestiere delle armi. In morte dei guerrieri. (pezzo del 2015)
Ricordo perfettamente quando è stato.
Avevo appena 17 anni il 16 marzo 1978, anche se ancora per poco, ma del giorno del rapimento del Presidente della DC, ho un ricordo netto. Il momento nel quale lo venni a sapere. La reazione del mio liceo. I militari ad allestire posti di blocco solo qualche ora dopo. Il sole che splendeva. Mia madre che non si stacca dalla tivvù delle Edizioni Straordinarie.
Però, delle centinaia di immagini riguardanti l’azione delle BR, dei servizi dei telegiornali, dei reportage e delle interviste, un fotogramma, uno solo, mi colpi con la forza di un maglio ed ha avuto la capacità di accompagnarmi in tutti questi anni, divenendo sia un lascito da parte dell’involontario protagonista, che un semino capace di far germogliare la pianta, l’albero adulto nel quale mi sono trasformato.
Questa la scena che porto sempre con me: Uno degli agenti della scorta del presidente Moro, Raffaele Iozzino, sul lato destro dell’autovettura ancora con gli sportelli aperti, sdraiato a terra a braccia aperte come un Cristo rinascimentale, con a coprirlo un telo bianco troppo piccolo per contenere le braccia allargate, ed accanto al corpo in un piccolo cerchio di gesso bianco, appena lontana dalla sua mano destra, la sua Beretta calibro 9 Parabellum bifilare, segno distintivo di appartenenza ad una piccola elite (allora le nostre Forze dell’Ordine erano ancora dotate in larga maggioranza delle vecchie Beretta 34 in calibro 9 corto) l’unica delle armi del team di protezione del presidente Moro che abbia sparato quel giorno, appartenuta all’unico agente di scorta che sia morto combattendo in quella bella giornata di quasi primavera.
Ricordo di aver pensato: “ecco, se dovessi mai fare in futuro un mestiere di quel tipo e dovesse capitarmi qualcosa di tanto terribile, vorrei che andasse così. Vorrei poter avere la forza ed il coraggio di non restare seduto in macchina, ma di giocarmela o almeno provarci e se è scritto cadere, combattendo”.
Questa, l’idea di cadere combattendo, è l’essenza a mio giudizio del pensiero di chi svolge il mestiere delle armi. Ed in questo mondo che per certi aspetti va alla rovescio, neppure più ai “guerrieri” è dato l’onore di giocarsela. Si lascia tutto, si muore, in un secondo, forse pieno di luce e di calore, per colpa di un gesto vigliacco che ti toglie anche la possibilità di reagire, di giocare a carte scoperte e vedere se in fondo puoi davvero provare a capire di che cosa sei fatto. Proprio come è successo Raffaele Iozzino ed ai nostri paracadutisti, ai nostri soldati in Afghanistan.
Conosco quel lavoro e per certi versi continuo a farlo anche se non più con la divisa addosso e sono convinto del fatto che la divisa la si porti soprattutto “dentro” e sulla base delle mie conoscenze della mentalità di chi serve, credo che si rischi di mancare un po’ di rispetto ai Caduti della Folgore nell’attentato di ieri a Kabul, ammantandoli del titolo di Eroi.
Non credo che vorrebbero sentirsi chiamare così e sono convinto del fatto che se potessimo chiederglielo, ci risponderebbero: ”ma io stavo solo facendo il mio lavoro, stavo solo compiendo una delle attività che ogni giorno vengono assegnate a me ed ai miei colleghi e guardi che non ho fatto proprio nulla d’eccezionale”.
Certo che in un mondo privo dei vili, sarebbe stata data loro la possibilità di giocarsela, sia ai miei fratelli paracadutisti, che alla Guardia di Pubblica Sicurezza Iozzino e non di cadere colpiti da aggressori vigliacchi o sparire in una nuvola di fumo e detriti che lascia solo dolore. Che poi, sono certo è tutto quello che ci avrebbero chiesto i Caduti, tutti i Caduti.
Cadere, combattendo.