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Segnali da interpretare

Cercare di dare un senso a quello che apparentemente sembra non averne e di coglierne gli elementi utili a prevenire le mosse di chi ci vuole sanguinanti, annichiliti dal terrore, sotto scacco. Questo è il lavoro sul quale sono concentrati in queste ore, coloro che si occupano di rendere quanto più possibile sicure le nostre vite, le città nelle quali viviamo, lavoriamo, andiamo in vacanza. Quindi proviamo a ripartire da quello che sapevamo, o meglio, che credevamo di sapere. Fino a poco tempo fa ci eravamo raccontati una storia. Ci eravamo detti tutti più o meno d’accordo, sul fatto che Daesh fosse in rotta, ridotto ai minimi termini dal punto di vista operativo e della capacità di organizzare azioni strutturate portate avanti da un numero cospicuo di terroristi. Ci raccontavamo che quella del ricorso ai cosiddetti “lupi solitari” fosse l’ultima carta rimasta fra le loro mani invece che una scelta operativa attuata fra quelle che erano le molteplici opzioni tattiche. Pochissime necessità dal punto di vista preparatorio dell’azione e quasi nessuna per quello che riguarda il livello di addestramento del terrorista che agisce. Il massimo del risultato possibile dal punto di vista dell’impatto e dello choc procurato a fronte dell’utilizzo di una risorsa facilmente reperibile e che non necessita di una serie di passaggi preparatori che ne avrebbero tradito le intenzioni rendendolo più facilmente inquadrabile dai radar degli apparati di sicurezza. Personalmente ho sempre scritto e ripetuto pubblicamente una mia convinzione. Il modello al quale Daesh tende dal punto di vista operativo è sempre stato e sempre rimarrà quello delle capitali come Parigi o Bruxelles sotto scacco, del manipolo di assalitori che prende possesso di un determinato spazio e che vi agisce più o meno indisturbatamente, attendendo, anzi auspicando l’arrivo delle Forze di Sicurezza e confrontandosi armi in pugno per un considerevole lasso di tempo con le stesse. Niente rende l’idea di “portare la guerra nelle nostre città” obiettivo questo dichiarato pubblicamente innumerevoli volte dai portavoce di Daesh, tanto quanto un team di loro “soldati” che uccide con modalità da conflitto e non da guerriglia, direttamente nei luoghi simbolo occidentali. Oltretutto ci dicevamo che il livello di penetrazione delle nostre Forze di Sicurezza e dell’Intelligence all’interno di queste strutture terroristiche e la loro capacità di individuare un nucleo strutturato di elementi che preparasse una azione complessa, fosse ormai tale per cui era impossibile o quasi che Daesh potesse riuscire a costruire un team di assalitori e di coordinarlo fino all’attacco senza essere individuato. Un team ha bisogno di incontrarsi, di dialogare di visitare i luoghi che vuole attaccare, di usare telefoni, di muovere soldi, di acquistare armi, di costruire esplosivi con materiali di circostanza. Un team lascia segnali, evidenze, tracce. Un team è l’ultima cosa che possono pensare di rimettere in piedi. Troppo palese e troppo rischioso. Sia come sia, il modello al quale Isis era ricorso più frequentemente in questi ultimi anni, era proprio quello del singolo assalitore che, con ogni possibile mezzo, aveva seminato morte e disperazione. Il franchising del terrore, lo avevamo chiamato, cercando di semplificare il concetto secondo cui non era più necessario aver fatto chissà quale esperienza di guerra in Iraq od in Siria per poter portare a compimento una azione sulla quale apporre la firma di Daesh e la immancabile rivendicazione. La tragica, drammatica vicenda spagnola di ieri, ci racconta una storia diversa e ci riporta nella maniera più violenta ad una realtà che i più non hanno voluto vedere ed a quei modello di azione che in troppi pensavano fosse impossibile replicare. Daesh è ancora in grado reclutare o di infiltrare all’interno del nostro tessuto sociale, elementi votati alla sua causa e di coordinarne le azioni pianificando attacchi, reperendo i materiali necessari compresi armi ed esplosivi, istruendoli e consentendo loro di comunicare senza svelarsi. Questa organizzazione terroristica è ancora in grado di portare attacchi strutturati, al di la delle azioni dei singoli, e vuole lanciare un messaggio di “intatte ed immutate capacità offensive” a chi guarda loro con ammirazione e vicinanza in maggior specie a tutti i figli di immigrati di terza o quarta generazione. Vuole che si sappia che sa e può ancora costruire un team di propri commandos, che sa come armarlo, come fargli effettuare test e sopralluoghi e come lanciarlo in azione malgrado l’enorme dispiegamento di uomini e mezzi che i governi stanno attuando da molti anni ormai. E della autorizzazione di un controllore, di un supervisore esterno, non c’è più bisogno, perché l’ordine è stato impartito da anni. Colpirci in ogni modo e con ogni mezzo, ad ogni possibile occasione. E questo è un ordine operativo che non ha scadenza e che sopravviverà a qualsiasi decapitazione dei loro vertici. Non ha più importanza che al Baghdadi sia ancora vivo o sia finito sotto un razzo lanciato da un caccia russo. L’ordine è lanciato e continuerà a raggiungerci ancora a lungo.